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Neurodiversità al lavoro

Il mio cervello, sotto i miei ricci e dietro le mie mani

Se non ti va di leggere questo articolo, puoi ascoltarlo.
Non sono una lettrice ad alta voce professionista, mi scapperà qualche papera e devo ancora trovare gli strumenti giusti.
Ma sto con quello che c’è. E spero possa esserti utile.

Cosa vuol dire neurodiversità al lavoro?
Riguarda sia il funzionamento dei cervelli (cioè come i cervelli lavorano, svolgono attività, funzionano, appunto) sia la necessità di indagare la neurodiversità per poter costruire ambienti di lavoro più accessibili.
E perché dovrebbe interessarmi tutto questo?

Non posso riponderti così su due piedi, ma se queste sono le domande che ti stai facendo, questo articolo è stato pensato proprio per te. Per orientarti di fronte a concetti nuovi che sentiamo e leggiamo sui social e spesso non abbiamo il tempo e la possibilità di approfondire. E per farlo ti guiderò anche attraverso alcuni libri (e persone): in fondo all’articolo troverai una mini bibliografia che terrò aggiornata nel tempo.

In questo articolo scriverò di neurodiversità, del modo in cui tutti i nostri cervelli hanno funzionamenti differenti e di come questo influisca sul nostro lavoro. Su come sia necessario creare un ambiente lavorativo in cui ogni persona possa sentirsi non diversa, sbagliata, da sistemare ma esattamente quella che è.

“Il cambio di prospettiva è radicale: al posto di creare un ambiente in cui tutte le persone somigliano a te, devi crearne uno in cui ogni persona somiglia a sé stessa”.

Marco Bertoni, “People matter. Una conversazione su inclusione, lavoro e accessibilità digitale”.

Neurodiversità (al lavoro)

Mi occupo di organizzazione del lavoro e se c’è una cosa che ho capito è che esistono tanti metodi di organizzazione quante persone su questa terra. Non esiste un metodo adatto a tutte, e non esisterà mai. Perché funzioniamo in modo diverso. Abbiamo obiettivi, bisogni e contesti molto diversi e l’organizzazione non prescinde mai dalla relazione che sappiamo costruire. Quando ci occupiamo di equilibrio vita-lavoro dobbiamo ricordarcelo.

E anche i nostri cervelli non sono da meno.

“La neurodiversità umana è quindi, prendendo come base la definizione di biodiversità, la variabilità tra i sistemi nervosi di ogni essere umano, l’insieme delle differenti caratteristiche che costituiscono la neurologia di ciascuna persona sulla terra. In pratica: siamo tutte neurodiverse, siamo tutti neurodiversi, siamo tuttǝ neurodiversǝ”.

Fabrizio Acanfora, La diversità è negli occhi di chi guarda.

Spesso attribuiamo al termine “diverso” un senso negativo, un giudizio qualitativo: “Sei diverso da quando ti ho conosciuto”, e prima mi piacevi di più. “Fai sempre la diversa!” e non va bene.

Se spogliassimo la parola “diverso” da questo senso connotato e provassimo a recuperare il valore di “varietà”? Siamo persone varie, molto più vaste di quello che tendiamo a pensare.

Un ambiente di lavoro deve considerare la diversità-varietà: perché c’è, esiste, e non vederla non la fa essere meno reale. Anzi aggiunge frustrazione, straniamento, livore… tutte emozioni che non vorremmo provare costantemente. Soprattuto in un contesto dove passiamo gran parte del nostro tempo, al lavoro.

“Il movimento per la neurodiversità si propone di ridefinire caratteristiche e tratti classificati come disturbi mentali e neurologici come forme, invece, valide della diversità umana, presenti in natura“.

Eleonora Marocchini, Neurodivergente.

Quindi il concetto di neurodiversità include chiunque abbia un cervello.
Perché siamo tutte persone differenti, non difettose, non sbagliate.

Neurodiversità o neurodivergenza?

Spesso sui social il termine “neurodiversità” viene usato come sinonimo di “neurodivergenza”. Eppure non è proprio così.

Un cervello neurodivergente è “un cervello che diverge”.

Kassiane Asasumasu

Ma diverge da cosa?
Dalla normalità, intesa come concetto statistico.

Normalità è un concetto statistico (a proposito di usare le parole in maniera puntuale e precisa), che si basa sulla massima frequenza con cui un valore compare in una popolazione. Si considera la norma, normale appunto, quello che avviene con maggior frequenza e in un determinato intervallo di tempo.

Non è quindi un giudizio qualitativo, della serie “normale” va bene e tutto il resto no (anche perché questo giudizio non vale allo stesso modo per tutte le qualità: se ti dicessi che hai un’intelligenza normale non la prenderesti benissimo, vero?)

Ecco che allora possiamo delineare un insieme vasto in cui ritrovare ogni persona e ogni cervello (neurodiversità) e distinguere al suo interno tra cervelli neurodivergenti e cervelli neurotipici. Dove per tipico possiamo intendere, anche qui, il concetto statistico di normale: che occorre di più, in un determinato tempo, in una certa popolazione.

Le persone neurodivergenti

I cervelli che divergono sono quelli delle persone:

  • autistiche
  • ADHD
  • DSA
  • disprassiche
  • tourettiche
  • epilettiche*
  • depresse* ecc.

Quindi la neurodivergenza include sia condizioni presenti sin dal neurosviluppo (in elenco, senza asterisco), sia condizioni acquisite, in seguito a un trauma fisico o per l’insorgere di qualche psicopatologia (in elenco, con l’asterisco*).

Essere consapevoli di queste possibilità è fondamentale anche in ambiente lavorativo perché alcune procedure, prassi, scelte devono considerare che “quelle che per alcune persone sono comodità e preferenze, per altre persone sono bisogni e necessità” (Eleonora Marocchini, Neurodivergente).

E, come puoi osservare dal grafico, la neurotipicità occorre maggiormente (cioè ci sono più cervelli neurotipici), costituendo una norma statistica e non qualitativa:

Grafico sull'occorrenza di neurotipicità e neurodivergenza

I dati sulla neurodivergenza

Le stime variano notevolmente nella popolazione mondiale, considerando anche tutte le persone che sviluppano per un certo periodo, almeno una volta nella vita, condizioni mentali temporanee e curabili (che possono comportare una diversa reazione agli stimoli e quindi una neurodivergenza). Quindi oscillano:

  • tra un quarto della popolazione (studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, 2001)
  • e la metà (studio di McGrath et al., 2023).

Grafico sui dati della neurodivergenza

[Grazie a Cristina Scaraffia, che quando si parla di persone, dati, grafici e parole è sempre la più esperta].

Questa altalenanza dipende anche molto dall’accessibilità ai percorsi diagnostici e dalla volontà delle persone singole. Le storie di vita sono notevolmente diverse e non tutte le persone sentono il bisogno di ricevere una diagnosi, che viene vista come un “bollino”, una prova giudicante.

Questo vuol dire che:

  • su 4 persone che leggeranno questo articolo, 1 potrebbe essere neurodivergente
  • su 4 persone che leggeranno questo articolo, 2 potrebbero essere neurodivergenti.

Ora prova a contare il numero di persone con cui vieni a contatto ogni giorno, sul luogo di lavoro, e prova a fare questo semplice calcolo anche tu.

Neurodiversità al lavoro: la convivenza delle differenze

Possiamo cominciare a pensare “all’inclusione non come un gesto unidirezionale concesso dalla maggioranza – dalla normalità – alle minoranze, ma come un processo basato sulla reciprocità che può essere espresso in modo più appropriato dall’idea di convivenza delle differenze“.

Fabrizio Acanfora, Di pari passo: il lavoro oltre l’idea di inclusione.

Superare il concetto di inclusione vuol dire “redistribuire l’eccesso di potere, oggi concentrato nelle mani della maggioranza, tra tutte le parti di una comunità”, continua l’autore. Perché le dinamiche di potere inquinano l’ambiente: esistono e ci sono e possiamo riconoscerle. Ma possiamo anche trovare parole nuove che ci aiutino a cambiare i pesi.

E come possiamo costruire questa convivenza delle differenze? Con attenzione e fatica, impegno e costanza. E tempo.

“La convivenza è un processo attivo che richiede a ciascuna persona di fare un passo verso l’altra, che azzera la contrapposizione classica di noi verso loro, e mette al centro la persona con le sue peculiarità, con le caratteristiche uniche che la rendono diversa da qualunque altra”.

Fabrizio Acanfora, Di pari passo: il lavoro oltre l’idea di inclusione.

Per una nuova cultura aziendale

Serve quindi alimentare una cultura aziendale nuova.

  • Dove la salute mentale e fisica di chi lavora in azienda sia una preoccupazione vera e concreta. Perché siamo persone più produttive solo se stiamo veramente bene. Il benessere delle persone che lavorano in azienda genera valore, anche economico.
  • Serve costruire un luogo in cui la reciprocità, il fare passi l’una verso l’altra, sia un movimento supportato e prediletto. Una struttura aziendale verticale, impositiva e controllante non genera reciprocità mentre un’organizzazione del lavoro più orizzontale la incoraggia e la valorizza.
  • Una cultura in cui ogni persona possa crescere ed essere gratificata per sé stessa, non secondo standard livellanti (dalla survey dell’Osservatorio Glickon sulla felicità al lavoro emerge come la felicità sia legata ad aspetti diversi e non meramente economici, soprattuto in relazione all’età). Questo punto è fondamentale anche per garantire un forte senso di appartenenza, ridurre il turnover e aumentare la capacità aziendale di trattenere talenti.
  • Un posto di lavoro in cui l’accessibilità non sia un’imposizione legislativa ma il frutto di una curiosità continua, del movimento innescato dalla reciprocità
  • e dove performance e produttività siano conseguenze naturali di questi movimenti, non imperativi.

Certamente questo cambiamente richiede uno sforzo, anche economico, ma:

“Vale la pena ricordare che nella quasi totalità dei casi tutto, dalle valutazioni del personale alle dinamiche aziendali, è disegnato e strutturato pensando a un ideale di persona standard, e questo comporta necessariamente uno svantaggio per chiunque […] possa essere definita non conforme rispetto a tali standard”.

Fabrizio Acanfora, Di pari passo: il lavoro oltre l’idea di inclusione.

Spesso organizziamo, lavoriamo, scriviamo e comunichiamo pensando a una persona ideale che non esiste. Me lo ripete spesso Annamaria Anelli, che si occupa di comunicazione chiara e rispettosa: tendiamo a scrivere per persone che sono ben istruite, con una capacità cognitiva salda, occidentali, (aggiungo etero cis), che hanno tutto il tempo del mondo per leggere le nostre parole, una buona connessione, un’alfabetizzazione digitale ottima. Insomma, persone che non esistono, proprio come tutte le persone ideali.

E allora iniziare a pensare alla neurodiversità, a considerarla e rilevarla come reale e vivente, è una possibilità che le aziende oggi possono (direi devono) esplorare e anche noi che con le aziende lavoriamo e che nelle aziende abitiamo.

Se vuoi approfondire

Ti suggerisco qui di seguito alcuni testi che parlano di neurodiversità in maniera chiara e non specialistica.

Il prossimo mese proverò a individuare buone pratiche e prassi che tengono conto della neurodiversità nell’organizzazione del lavoro, questa premessa però era d’obbligo: per poterci orientare in un argomento così vasto, ho sentito il bisogno di fissare qualche punto fermo.

Infine, vorrei ringraziare tanto Annamaria Anelli e Cristina Scaraffia, che mi hanno aiutato, rispettivamente, a rendere questo articolo più chiaro e questi grafici più accessibili. E sono due compagne di lavoro insostituibili.

Io sono Sara Cremaschi, la tua assistente virtuale mindful.
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